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Gianfranco Zappettini un invito per The Bounty Killart

05 May 2022 - 06 July 2022
Via Mario Giuriati, 9 Milano

Gianfranco Zappettini invita The Bounty KillArt: perché? Paola Valenti Questo testo non può che iniziare con una domanda: cosa può indurre Gianfranco Zappettini, maestro internazionalmente riconosciuto come uno dei più rigorosi interpreti delle ricerche incentrare sull’analisi del fare pittura, a invitare The Bounty KillArt, nome che cela l’identità di artisti assai più giovani di lui e dediti a praticare una scultura di ascendenza surrealista e di vago sapore pop/postmoderno, a intessere un dialogo con una sua opera? Probabilmente non esiste una risposta univoca, ma la sfida a proporne una che possa risultare convincente è certo assai stimolante. Conosco Gianfranco Zappettini da ormai diversi anni: ho trascorso interi pomeriggi a parlare con lui del suo lavoro, del suo pensiero, della sua concezione del processo pittorico e, più in generale, del fare arte. In quelle occasioni ho raccolto informazioni, suggestioni e spunti che, uniti alle nozioni apprese attraverso uno studio approfondito del suo percorso artistico, ho rielaborato nella stesura di alcuni testi critici e nell’allestimento di una recente mostra . Confortata dal suo apprezzamento ho iniziato a immaginarmi come una sorta di sua personale esegeta ma, ormai mi è chiaro, con Zappettini non ci si può sedere sugli allori. Ecco, infatti, arrivare la telefonata che ha rimesso tutto in discussione: “Conosci The Bounty KillArt? Li ho invitati a esporre con me in una mostra che terremo a breve alla Galleria Menhir a Milano. Ci sarà una mia opera, una sola, con la quale loro andranno a creare una relazione. Hai voglia di scrivere il testo critico?”. Si, conoscevo già The Bounty KillArt, anche grazie a un interessante precedente: il collettivo torinese era stato già selezionato da Zappettini per una mostra del 2014 intitolata White Noise. Rumore Bianco. Organizzata per celebrare i primi dieci anni di attività della Fondazione Zappettini, dedicati, con successo, a riportare la Pittura Analitica nel vivo degli interessi della critica e all’interno del circuito espositivo, la mostra è rilevante dal punto di vista sia storico, perché indica una precisa volontà su superamento di ricerche radicate negli anni settanta, sia ideativo, come emerge dalle parole dello stesso Zappettini: Per celebrare il decennale della Fondazione ho voluto una mostra che ci aprisse verso un periodo nuovo e diverso, e così ne è nato un confronto con quattro giovani realtà della scultura internazionale, giocato sulla ricerca dei materiali, sul processo di lavoro e sul colore bianco - compagno di strada del mio viaggio di artista e di uomo. Come il rumore bianco è un suono-non suono, così il bianco colore-non colore ha permesso a me e ai miei più giovani colleghi di dialogare sullo stesso piano, incontrandoci da provenienze ovviamente diverse. Da questa distonia è nata una sintonia che spero faccia discutere, spero faccia arricciare il naso ai più, spero riesca a sorprendere tanto il visitatore occasionale quanto il conoscitore d’arte. La distonia che genera una sintonia potrebbe confermarsi un concetto chiave per venire a capo di questo invito, così come il desiderio di sorprendere e di far discutere, ma “il bianco colore-non colore” non può più essere individuato come il trait d’union perché, se è rimasto un tratto distintivo delle sculture dei The Bounty KillArt, da diversi anni ormai ha perso centralità nell’opera di Zappettini: ora è l’oro il colore-materia-concetto che prende forme e valenze diverse attraverso il processo creativo. Si deve, dunque, guardare altrove e andare alla ricerca di altri nessi, di altre ragioni che possano avere motivato il desiderio di questo dialogo. É, dunque, il momento di rivolgere l’attenzione ai The Bounty KillArt: compagni di studi all’Accademia Albertina di Torino e attivi dal 2002, prelevano dalla secolare storia dell’arte dell’Occidente temi e soggetti che ripropongono in incisioni, serigrafie, arazzi e sculture, “rettificandoli” con un occhio rivolto al Duchamp di L.H.O.O.Q. e l’altro alla compagine dei surrealisti, dai quali mutuano non solo la pratica degli assemblaggi incongrui, ma anche quella degli inserti testuali e dei titoli spiazzanti. Nell’ambito di questa vasta e diversificata produzione sono state le sculture ad attrarre l’attenzione di Zappettini in occasione della mostra White Noise. Rumore Bianco, e sono nuovamente queste opere a entrare in gioco in questa seconda occasione d’incontro. L’espressione figurata ‘entrare in gioco’ assume qui, nelle mie intenzioni, un significato letterale: proprio l’idea del ‘gioco’ potrebbe, infatti, delinearsi come il collante che tiene insieme questa mostra e, andando a monte, rivelarsi la ragione dalla quale è partita l’idea dell’invito. Da molti anni ormai all’apice di una carriera costellata di successi e riconoscimenti, Zappettini mi ha spesso confidato di volersi “divertire”. I The Bounty KillArt, dal lato loro, in una recente intervista rilasciata dopo la vittoria del Premio Comel 2020-2021 hanno così risposto alla domanda su come fosse nata in loro l’idea di introdurre elementi ironici e surreali in opere classiche: È il risultato naturale dell’unione di due nostre passioni, quella per l’arte antica e per l’ironia nell’affrontare il quotidiano. Così abbiamo iniziato il nostro percorso sin dall’inizio, giocando lo stiamo portando avanti, certo non mancano i cambiamenti in noi ed in ciò che ci circonda ma il gioco resta un punto fermo a cui non vogliamo rinunciare. Non vi è nulla di diminutivo in questo condiviso impulso al gioco, anzi: basti pensare che nel saggio epistolare Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, apparso per la prima volta sulla rivista “Die Horen” nel 1795, Friedrich Schiller argomentava: “Cosa significa solo per gioco quando sappiamo che di tutte le condizioni in cui l’essere umano può trovarsi è proprio quella del gioco, e solo quella, a renderlo completo?”. Schiller arriva ad affermare che sarebbe proprio l’impulso al gioco a generare l’arte, e i The Bounty KillArt non perdono occasione per confermare questa teoria. L’invito di Zappettini diventa così un’opportunità ludica che non può esaurirsi nella semplice scelta di lavori da accostare a quello del maestro. Ecco, dunque, farsi avanti l’idea di un intervento installativo, capace di coinvolgere lo spazio espositivo e i visitatori in una dinamica partecipativa. Entriamo nel vivo del progetto: giunti in galleria si è accolti da un imponente portale interamente lavorato a bassorilievo. Dal gesso affiorano tormentate figure umane e animali che paiono in lotta con una materia che sembra volerli risucchiare: la mente corre ad alcuni brani di battaglia della colonna istoriata di Marco Aurelio, alla Centauromachia di Michelangelo, alla Porta dell’inferno di Auguste Rodin. Quest’ultimo riferimento si consolida quando si scopre lo spiazzante titolo dell’opera, Exit, e si nota come essa inquadri, in una sorta di contrappunto, il dipinto di Zappettini Con-Centro n. 58, opera del 2018 ricondotta dall’artista alla serie dell’Età dell’oro. Una prima chiave di lettura potrebbe essere quella di un colto dialogo tra la cultura classica, di cui proprio il biancore della scultura è un fallace emblema, e la tradizione bizantina del fondo oro, che nega ogni rapporto della rappresentazione pittorica con il mondo reale e la proietta su un piano metafisico. Ma se recuperiamo l’idea che si tratti di un gioco, allora dobbiamo andare alla ricerca di quel piglio ironico che caratterizza tutta la produzione dei The Bounty KillArt e che si declina principalmente negli spiazzanti collage tridimensionali in cui rifacimenti di frammenti di sculture classiche convivono con oggetti iconici della nostra contemporaneità. Questi elementi non si ravvisano nei drammatici bassorilievi del portale e, allora, non rimane che concentrarsi sul titolo, che nei lavori del collettivo non è mai un dato didascalico bensì, come già accennato, un complemento concettuale dell’opera e un potenziamento della dimensione ironica. Exit certo ribalta le aspettative del pubblico che entra in galleria e impone una riflessione sulla condizione dalla quale si sta per distaccarsi, e se la rappresentazione sulla ‘porta d’uscita’ è quella dell’inferno, allora diventa facile cogliere l’analogia tra le bolge e la nostra caotica quotidianità, dominata da materialismo, brama di possesso e bisogno di affermazione personale. L’invito è a lasciarsi tutto ciò alle spalle per entrare in un’altra dimensione, ossia in quella metafisica, astratta e trascendente dell’Età dell’oro annunciata dall’opera di Zappettini. Ma anche il maestro sta al gioco e, accettando di accantonare il vero sostrato filosofico delle opere di questa serie, mette i ‘viandanti’ di fronte a uno spazio ingannevole, non bidimensionale come può apparire a un primo sguardo, ma attraversato da cerchi concentrici che esercitano una duplice forza, una che muove verso l’alto, suggerendo allo spettatore la possibilità di una ascesa, e l’altra che va in profondità, prospettando, in questo contesto, una nuova discesa agli inferi. Ci si trova, dunque, in una sorta di limbo, o meglio di Purgatorio, a interrogarsi perplessi sulle proprie spettanze: elevazione o abiezione? Non vi è da parte né di Zappettini né dei The Bounty KillArt alcun intento moraleggiante, nessuna volontà di esercitare una critica o una condanna, ma solo un divertito sguardo sulle abitudini e i comportamenti spesso contraddittori che dilagano nella società occidentale del nostro tempo. Solo per fare un esempio che riguarda soprattutto l’Italia: in inquietante continuità con gli anni bui del ventennio sentiamo non di rado, negli xenofobi discorsi di alcuni politici, evocare il “primato” del popolo italiano (o forse si vorrebbe dire ‘della razza italica’), unico erede dei fasti e delle virtù dell’antica Roma, culla di quella cultura classica richiamata in vita dai bassorilievi del nostro portale; ma intano noi, dopo avere magari applaudito a questi proclami, con disinvoltura e spensieratezza, incuranti della nostra nobile progenie, prendiamo a modello i popoli ‘altri’, ci rivolgiamo sempre più spesso alle loro filosofie, per alcune ore al giorno ne mutuiamo le pratiche di meditazione e di cura del corpo, occasionalmente facciamo nostre le loro abitudini alimentari e poi torniamo a essere in tutto e per tutto italiani, esaltiamo il Made in Italy e le proprietà della dieta mediterranea, sosteniamo che non vi sia niente di meglio al mondo del Bel Paese, rischiamo di sprofondare nel baratro populista del mito ‘terra e sangue’ ogni volta che gioca la Nazionale. E così, nello spazio liminale del Purgatorio che si crea tra Exit e Con-Centro n. 58, mentre ci muoviamo avanti e indietro lungo un rinnovato asse Roma-Bisanzio, diventiamo noi gli incongrui collage tridimensionali dei The Bounty KillArt. Per trovare conferma di questa forse eccentrica teoria bisogna spostarsi nella stanza accanto, dove ci attendono creature mitologiche, divinità, santi, eroi che hanno ormai rinunciato a raccontarci storie dalle quali dovremmo trarre exempla di virtù, recuperare le nostre matrici culturali e risalire alle nostre origini. Si sono, invece, adattati ai nostri tempi, alle nostre manie e fobie: Narciso contempla la sua immagine riflessa nel display di uno smartphone e cerca l’amore su Tinder, prima che la morte lo trascini nel lago dove era solito ammirarsi (Love me Tinder, 2016); Mosé scende dal monte Sinai portando con sé non le Tavole della legge, bensì una radio mangianastri, oggetto culto per gli appassionati del vintage, dalla quale capta notizie più o meno veritiere sulla base delle quali aggiornerà i Dieci Comandamenti (Power of Law, 2017); il Padre Eterno della Creazione di Adamo di Michelangelo della Cappella Sistina, trasportato da uno spazzolone, ripulisce il cielo brandendo un detergente spray con la mano protetta da un guanto giallo, arrendendosi così alla nostra sempre più diffusa rupofobia (Celito Lindo, 2017); Plutone, invece di trascinare agli inferi Proserpina, porta in braccio con affetto un gigantesco orso di peluche con il quale ha stretto eterna, mentre Bismarck, il Cancelliere di Ferro diplomatico e mediatore, è condannato alla solitudine, spauracchio e vergona in una società in cui si vantano le centinaia gli amici sui social (Best Friend Forever, 2019); Atlante ha scaricato il mondo e ora porta sulle spalle il peso di un’enorme pillola, odierna panacea anche quando non è altro che un placebo, rimedio magico al quale affidiamo le nostre illusioni di eterna giovinezza e, forse, anche di immortalità (Livin’on the Edge, 2017). E ancora, dall’alto di una colonna l’imperatore Ottaviano Augusto, vestito con la lorica, rinuncia all’autorevole gesto della locuzio con cui arringava il popolo e si limita a innalzare un cartello con il quale apparentemente ringrazia per l’attenzione una folla assente. Ma se si ha in mente la scultura originale si nota, ai piedi dell’imperatore, la sostituzione della figura del dio Eros infante seduto sul dorso di un delfino, simboli della dea Venere, con un irridente ‘cinocefalo invertito’, dalla testa di uomo e il corpo di cane, creatura ibrida che riassume in sé, sovvertendole, la tradizione pagana di Eracle che porta in spalla Eros e quella cristiana di San Cristoforo che, allo stesso modo, fa attraversare un fiume al Cristo bambino. Forse il ringraziamento è rivolto a loro, perché hanno abbandonato ai piedi della colonna Eros/Gesù, il bambino divino, generatore del mondo e dell’umanità che proprio quel mondo sta ora distruggendo (Grazie, 2020). Sicuramente, se siamo onesti, ritroviamo noi stessi in questi ironici e dissacranti detournements che, certamente, hanno molto divertito anche il maestro Zappettini e gli hanno permesso di entrare in un gioco che, per una volta, ha fatto venire a galla quella vena ironica che attraversa, certo sotto traccia, tanti momenti del suo lavoro: basti pensare ai collage del 1962 realizzati con calze di nylon femminili strappate e bruciate che sdrammatizzano la materia tormentata di molte opere di matrice informale del decennio precedente; alle episodiche incursioni nei ritorni alla figurazione dei primi anni ottanta, solo appartenente dettate dallo Zeitgeist e condotte, invece, come una sorta di divertissement all’interno della sua rigorosa analisi del processo pittorico; e ancora alle ambiguità che egli ama intessere intorno al ‘principio primo’ al quale rispondono alcuni suoi lavori, al concetto di serialità, alla simbologia dei colori, alla natura fisica o alchemica dei suoi preziosi materiali, all’effettiva capacità del pubblico di penetrare all’interno del suo universo concettuale. Ecco perché, a parer mio, Gianfranco Zappettini ha invitato The Bounty KillArt: per divertirsi e divertire, per suggerire la possibilità (o forse per fare emergere la necessità) di nuovi sguardi sul proprio consolidato percorso artistico, per esaltare il potere dell’ironia e dell’autoironia e, soprattutto, per giocare con la polisemia dell’opera d’arte. Ma poi il gioco finisce: in una stanza un po’ defilata, altre due opere di Zappettini, appartate, ci ricordano con serietà che, a fronte di ciò che siamo, l’età dell’oro non è certo alla nostra portata.